I. Cenni introduttivi
Ogni avvocato, prima o dopo, sente dire almeno una volta che il peggior nemico di un avvocato è il suo cliente. Questa frase, detta scherzosamente, tradisce la serietà della difficile situazione nella quale potrebbe trovarsi un avvocato difensore qualora il proprio cliente dovesse fornirgli informazioni imprecise, incomplete o se dovesse omettere di comunicargli tempestivamente informazioni importanti. Nella maggioranza dei casi, l'asimmetria di informazioni nuoce, in ultima analisi, al cliente stesso. Sono però ipotizzabili situazioni in cui lo stesso avvocato difensore potrebbe ritrovarsi in una posizione scomoda. Ad esempio, l'avvocato difensore che, per conto del suo assistito, sporge denuncia contro un terzo, segnalandolo al ministero pubblico come l'autore di un reato, potrebbe - nel caso questi fosse in realtà innocente - rendersi in prima persona colpevole di denuncia mendace ai sensi dell'art. 303 n. 1 CP[1].
Nel contesto della denuncia mendace, poi, il ruolo svolto dall'avvocato difensore può adempiere la fattispecie del reato anche con altri comportamenti. Infatti, l'avvocato difensore che, nella sua arringa difensiva, proclama l'innocenza del proprio assistito e dichiara che il testimone dell'accusa starebbe mentendo, potrebbe - di nuovo - rendersi colpevole di denuncia mendace.
Con il presente contributo, gli autori si interrogano sul ruolo svolto dall'avvocato difensore nel quadro delle due situazioni appena illustrate. Si tenterà, in particolar modo, di indicare i confini della liceità della gestione del mandato da parte dell'avvocato difensore, il quale deve dimostrare particolare abilità per riuscire a tutelare al meglio gli interessi del suo cliente, senza però lasciare che la propria azione sfoci in una condotta penalmente rilevante.
II. La denuncia mendace
1. La fattispecie ex art. 303 n. 1 CP
Ai sensi dell' art. 303 n. 1 CP si rende punibile chiunque denuncia all'autorità come colpevole di un crimine o di un delitto una persona che egli sa innocente, per provocare contro di essa un procedimento penale, oppure chi in altro modo ordisce mene subdole per provocare un procedimento penale contro una persona che egli sa innocente.
Il bene giuridico tutelato dalla citata norma è, in primo luogo, l'interesse collettivo al buon funzionamento della giustizia. In secondo luogo, invece, è salvaguardata la personalità della persona ingiustamente accusata, con particolare riguardo al suo onore, alla sua libertà ed alla sua sfera privata.[2]
Primo fra gli elementi tipici della fattispecie è la denuncia. La denuncia è una segnalazione, verbale o scritta, con la quale viene indicato che un'altra persona avrebbe (o potrebbe aver)[3] commesso un crimine, un delitto o una contravvenzione.[4] La denuncia deve essere idonea a provocare un procedimento penale nei confronti di un'altra persona, ma non è necessario, affinché il reato si configuri, che il procedimento penale abbia effettivamente luogo.[5] Una denuncia è idonea a provocare un procedimento penale se è adeguata a dare origine, presso il pubblico ministero, ad un sufficiente sospetto iniziale.[6] In tal senso, non è strettamente necessario che essa avvenga direttamente nei confronti dell'autorità penale. È infatti sufficiente che una segnalazione sia presentata ad altre autorità o uffici, se questi sono tenuti a notificare il presunto illecito all'autorità penale, o se l'autore possa ragionevolmente presumere che la denuncia sarà inoltrata all'autorità penale.[7]
Perché adempia la fattispecie del reato, con la denuncia l'autore deve accusare come colpevole di un reato una persona identificata personalmente, oppure descritta in modo che sia identificabile.[8] Inoltre, la persona denunciata deve essere innocente. Innocente è chi non ha commesso il reato di cui viene accusato, ma anche chi può dirsi innocente in seguito ad assoluzione o ad un decreto di abbandono.[9]
Allo stesso modo, adempie la fattispecie ex art. 303 n. 1 CP chi - anziché denunciare presso l'autorità penale (o presso un'altra autorità che provvederà ad inoltrare la denuncia) - ordisce mene subdole, ovvero si adopera, con astuzia, affinché i sospetti ricadano su una persona innocente.[10] Un precedente giurisprudenziale relativo all'ordimento di mene subdole ritiene ad esempio tipica l'azione di chi, sottoposto ad un interrogatorio nelle vesti di imputato, finge di essere una persona diversa alfine di provocare un procedimento penale contro di tale persona.[11]
Sia che denunci direttamente, sia che ordisca mene subdole, l'autore adempie la fattispecie soggettiva del reato di denuncia mendace unicamente qualora agisca con dolo diretto in relazione all'infondatezza delle accuse avanzate.[12] In altre parole, l'autore deve essere chiaramente a conoscenza dell'innocenza di chi si appresta ad accusare, e deve desiderare farlo ugualmente.[13]
Inoltre, il denunciante deve agire con l'intenzione di causare un procedimento penale contro il denunciato.[14] L'intenzione, nel contesto della denuncia mendace, indica semplicemente che l'esito a cui l'autore aspira e l'esito che si produce invece nella realtà non devono necessariamente corrispondere.[15] In altre parole, non è rilevante se il procedimento penale ha effettivamente luogo; il discriminante è solo se l'autore aveva l'intenzione di causarne uno.[16] A differenza del dolo, inoltre, per quanto attiene all'intenzione è sufficiente l'intenzione eventuale, in cui l'autore riconosce la possibilità concreta di causare un procedimento penale nei confronti della persona denunciata e se ne accolli il rischio.[17] Il reato di denuncia mendace non può più configurarsi qualora un procedimento penale è già stato avviato a carico della persona denunciata. L' art. 303 n. 1 CP esige infatti che l'autore agisca con lo scopo di provocare contro una persona un procedimento penale; il mero intento di favorire il prosieguo di un procedimento penale già pendente non è sufficiente (DTF 111 IV 159, consid. 2a; sentenza del TF 6B_901/2016 del 18 gennaio 2017, consid. 3.1).
2. Il dolo diretto in particolare
Agisce con intenzione, ossia con dolo diretto, chi compie un'azione consapevolmente e volontariamente.[18] Tali avverbi escludono la costellazione del dolo eventuale, anticipata in precedenza, in cui l'autore riconosce la possibilità della realizzazione dell'esito tipico e decide di agire ugualmente.[19] Come già illustrato, la denuncia mendace richiede tassativamente la commissione con dolo diretto.[20]
La dottrina differenzia fra dolo diretto di primo e di secondo grado. Agisce con dolo diretto di primo grado chi ha piena consapevolezza del fatto che la propria condotta è tipica di una fattispecie penale, e agisce al preciso scopo di configurare il reato in questione.[21] Il dolo diretto di secondo grado, invece, è caratterizzato dal fatto che l'autore persegue un determinato fine, ben consapevole del fatto che la sua condotta avrà l'effetto collaterale di produrre l'esito tipico di una determinata fattispecie penale.[22] Entrambe le forme costituiscono dolo diretto a pieno titolo.[23] Ciò si evince, secondo noi, anche dal fatto che l'intenzione di causare un procedimento penale contro l'accusato, necessaria quale ulteriore requisito soggettivo, è adeguata alla realizzazione del reato anche nella sua forma eventuale, il che dimostra che la condotta tipica può anche non essere l'obbiettivo primario dell'azione dell'autore.[24] In altre parole, anche colui che agisce con un elemento volitivo non direttamente orientato alla realizzazione del reato, bensì ad un fine diverso, che però comporta necessariamente la realizzazione del reato, dimostra una condotta tipica del dolo diretto. È questo il caso, secondo noi, dell'avvocato difensore che sporge denuncia in quanto intenzionato, primariamente, a svolgere il mandato nell'interesse del proprio assistito.
Parte della dottrina riconosce, infine, una particolarità per quanto concerne il dolo diretto in relazione alla denuncia mendace: infatti, anche se in linea di principio il dolo diretto ammette delle variazioni circa l'intensità dell'elemento intellettivo, nella fattispecie penale della denuncia mendace è espressamente richiesto che l'autore agisca «sapendo» dell'innocenza dell'accusato. Si tratta, dunque, di una forma particolarmente rigida di dolo diretto.[25]
Ricapitolando, affinché adempia la fattispecie soggettiva del reato di denuncia mendace, è necessario che l'avvocato difensore che sporge la denuncia per conto del suo cliente si renda conto, consultando le informazioni fornitegli dal cliente e quelle acquisite nel corso dello svolgimento del mandato, che la persona che si appresta a denunciare è innocente, e decida di procedere ugualmente.
III. Il rischio di responsabilità penale dell'avvocato difensore che sporge denuncia
1. Evidenze processuali in ordine al reato ex art. 303 n. 1 CP
Occorre a questo punto chiedersi in che modo sia possibile stabilire se un avvocato difensore che sporge denuncia per conto del suo assistito contro una persona innocente, avesse conoscenza dell'infondatezza delle accuse avanzate e quindi dell'innocenza della persona denunciata. A tal proposito, riteniamo importante sottolineare un aspetto: lo stato dell'animo con cui l'autore ha agito, ossia ciò che egli sapeva e voleva al momento della commissione del reato, costituisce una questione di fatto; è una questione di diritto, invece, la deduzione della sussistenza del dolo sulla base di quanto appurato.[26]
Le circostanze di fatto si deducono sulla base delle prove, e le prove sono valutate liberamente dal giudice (art. 10 cpv. 2 CPP[27]).[28] Queste considerazioni permettono di porre l'accento su un aspetto molto importante: se da un lato la fattispecie ex art. 303 n. 1 CP richiede inderogabilmente - sul piano soggettivo - la commissione con dolo diretto (vale a dire che l'autore deve avere certezza dell'innocenza della persona denunciata), la condanna per art. 303 n. 1 CP richiede invece «solo» che il giudice sia convinto, oltre ogni dubbio ragionevole, che l'autore abbia agito con dolo diretto.[29] È particolarmente rilevante, secondo noi, sottolineare che l'elemento soggettivo del reato ed il convincimento del giudice in sede processuale sono due questioni distinte che non vanno assolutamente confuse. Il giudice, infatti, non potrà mai avere reale e piena conoscenza della presenza o dell'assenza, nella psiche dell'imputato, dell'elemento volitivo e di quello intellettivo; potrà solo giungere ad una conclusione che risulta da una libera valutazione delle prove raccolte, per la quale è possibile concludere che oltre ogni dubbio ragionevole l'imputato era a conoscenza dell'innocenza dell'accusato e ha voluto agire ugualmente.
A tal proposito, riteniamo particolarmente interessante soffermarsi sulla situazione in cui l'accusa presentata si fondi su informazioni incoerenti fra loro, sicché la denuncia risulta inconsistente e contraddittoria; oppure sulla situazione in cui l'avvocato difensore presenta, in un arco temporale più o meno lungo, molteplici esposti pertinenti alla medesima (presunta) notizia di reato, i quali - anche qui - si contraddicono fra loro, manifestando evidenti incoerenze ed escludendosi a vicenda.
Come già esposto, la sussistenza dell'elemento intellettivo e di quello volitivo è una questione di fatto, deducibile sulla base delle prove raccolte. Degli elementi probatori fanno parte, certamente, anche le dichiarazioni rilasciate dall'imputato, così come altri elementi del suo comportamento utili ad appurare determinati fatti interiori.[30] Pertanto, per dedurre, in ultima analisi, la presenza del dolo diretto in capo all'avvocato difensore che ha sporto la denuncia, è opportuno considerare le azioni dell'avvocato e la loro coerenza. In questo contesto, è opportuno rilevare che l'avvocato dispone di informazioni fornitegli dal suo assistito, o di informazioni collezionate autonomamente nel corso dello svolgimento del mandato. Nella dottrina si sostiene che l'avvocato che si serve delle informazioni fornitegli dal proprio cliente, senza verificarle, e procede a sporgere una denuncia o a muovere un'accusa contro un innocente, non integra la fattispecie di denuncia mendace (in quanto gli mancherebbe il dolo diretto).[31] A nostro modo di vedere, tale conclusione è condivisibile. Tuttavia, laddove l'avvocato difensore si basa sulle informazioni fornitegli dal proprio mandante e, a sostegno dell'accusa che si appresta ad avanzare, formula conclusioni e ipotesi in aperta contraddizione fra loro e che si escludono a vicenda, deve essere possibile dedurre la presenza, nella psiche del legale, dell'elemento intellettivo tipico del dolo diretto. In altre parole, al più tardi nel momento in cui l'avvocato difensore dovesse avanzare ipotesi che si escludono vicendevolmente, occorrerebbe, secondo noi, riconoscere che egli avrebbe consapevolmente avanzato almeno un'accusa infondata. (nota: secondo il TF, nel caso in cui il denunciante ha preso in considerazione la possibilità dell'infondatezza della denuncia, ciò non è sufficiente per realizzare sotto il profilo soggettivo il reato di denuncia mendace [sentenza del TF 6B_1352/2016 del 23 febbraio 2017, consid. 8]. La formulazione proposta dagli autori risulta quindi in contrasto con l'esposta giurisprudenza). Da ciò, e in considerazione di eventuali ulteriori elementi probatori coerenti, riteniamo legittimo considerare la possibilità di dedurre la presenza del dolo diretto relativa alla falsità della denuncia presentata.
2. Diffamazione ex art. 173 CP
Qualora, nel caso in esame, non vi fossero sufficienti elementi atti a supportare la tesi del dolo diretto, riteniamo necessario constatare che - in ogni caso - l'accusa infondata potrebbe adempiere altre fattispecie di rilevanza penale, in particolar modo quella del reato di diffamazione ex art. 173 CP. Tale reato, infatti, a differenza della denuncia mendace prevede anche la commissione con dolo eventuale.[32] Secondo la giurisprudenza, si rende punibile di diffamazione chi accusa ingiustamente un'altra persona della commissione di un reato, ossia la incolpa rispettivamente la rende sospetta di condotta disonorevole, qualora abbia totalmente omesso di verificare la veridicità delle proprie asserzioni e abbia basato le proprie asserzioni su sospetti vaghi e non corroborati da alcun riscontro fattuale.[33] In particolare, la giurisprudenza rileva come l'obbligo di appurare la veridicità delle informazioni sulle quali è basata un'accusa sia suscettibile di variazioni, a seconda delle circostanze. Ad esempio, colui che, con la propria denuncia, persegue la tutela di interessi di grande valore sarà scusato se non ha approfondito meticolosamente la natura delle informazioni a sua disposizione. Al contrario, se un'accusa è mossa principalmente allo scopo di arrecare danno all'accusato, l'accusatore è tenuto ad una grande attenzione per quanto attiene alle informazioni su cui basa le proprie asserzioni.[34] Allo stesso modo, è richiesta maggiore precauzione a colui che - ad esempio a causa della propria preparazione professionale - dispone di maggiori strumenti per appurare la veridicità delle informazioni in proprio possesso.[35] In conclusione, senza voler in questa sede addentrarsi nell'analisi di ipotetiche situazioni concrete, riteniamo che - in qualsiasi caso - l'avvocato difensore che riceve dal proprio cliente determinate informazioni debba in ogni caso preoccuparsi di verificarne la veridicità (nei limiti di quanto gli è possibile) prima di apprestarsi a sporgere denunce o avanzare accuse o sospetti di condotte penalmente rilevanti a carico di terzi.
3. Considerazione intermedia
Riassumendo, riteniamo doverose le seguenti considerazioni: in primo luogo, qualora un avvocato, per contro del proprio assistito, presentasse una denuncia rispettivamente muovesse un'accusa contro un innocente, sarebbe innanzitutto necessario indagare per stabilire se abbia agito dolosamente. La deduzione della presenza del dolo è, secondo noi, possibile in presenza di affermazioni manifestamente discordanti e incompatibili fra loro. A nostro avviso, la deduzione del dolo diretto è lecita, anche qualora l'avvocato difensore dovesse addurre di essersi fidato di quanto confidatogli dal suo cliente, al più tardi quando quest'ultimo dovesse cadere in aperta contraddizione, salvo il caso in cui fossero presenti indizi che indichino il contrario. In ogni caso, non si suggerisce alcun automatismo in tal senso. L'analisi della coerenza delle affermazioni del cliente dell'avvocato difensore che sporge la denuncia a suo nome viene proposta quale indizio per accertare la presenza dell'elemento intellettivo del dolo.
In secondo luogo, qualora la sussistenza del dolo diretto non fosse appurata, secondo noi bisognerebbe stabilire se l'avvocato difensore abbia agito - per quanto attiene all'innocenza della persona denunciata - con dolo eventuale. Ciò è rilevante, secondo noi, alfine di stabilire un'eventuale responsabilità penale dell'avvocato difensore per diffamazione ex art. 173 CP.[36] A tal proposito, ricordiamo che l'avvocato difensore è tenuto ad accertare la veridicità dei fatti (benché secondo noi questo obbligo possa risultare più o meno imperativo a seconda delle circostanze; un obbligo meno imperativo potrebbe sussistere, ad esempio, se il legale fosse spinto ad agire rapidamente per salvaguardare interessi di grande valore).
Proprio di quest'ultima eventualità, ossia del caso in cui l'avvocato difensore agisca spinto dalla necessità di tutelare interessi di grande valore, tenteremo di trattare nel paragrafo che segue.
IV. Il diritto alla difesa quale scusante?
Si immagini la seguente costellazione: una persona viene denunciata da un'altra, che l'accusa della commissione di un reato penale. Al processo, l'accusa si regge, in buona sostanza, sulla testimonianza del denunciante, che asserisce di aver osservato l'imputato mentre commetteva il fatto. L'avvocato difensore, nella sua arringa difensiva, smentisce il testimone, adducendo varie ragioni per cui questi non sarebbe credibile e accusandolo, a chiare lettere, di mentire. La corte penale di prima istanza ritiene di non disporre di sufficienti elementi per condannare l'imputato e pronuncia il suo proscioglimento. Il pubblico ministero, non soddisfatto dell'esito, ricorre in appello. Durante il processo d'appello, viene prodotto quale prova il filmato di una telecamera di sorveglianza in cui si può osservare chiaramente l'imputato mentre commette i fatti descritti in primo grado dal testimone. Per questa ragione, l'imputato viene condannato in seconda istanza. In seguito, il denunciante-testimone lamenta di essere stato accusato ingiustamente dall'avvocato difensore, nell'ambito del procedimento penale dinanzi alla prima istanza, di denuncia mendace e di falsa testimonianza. Supponendo che si possa dimostrare che il difensore sapesse della colpevolezza del proprio assistito (ad esempio perché quest'ultimo dichiara di aver comunicato apertamente la propria colpevolezza all'avvocato), occorre chiedersi se l'avvocato si sia reso responsabile di denuncia mendace.
In primo luogo, sottolineiamo che la giurisprudenza ha chiaramente stabilito che non è esente da pena chi, per dirottare i sospetti su di un altro, accusa un innocente di aver commesso il fatto che viene invece imputato a lui. Il Tribunale federale ha chiaramente sancito che un simile comportamento è tipico del reato di denuncia mendace, e che il rischio di condanna che incombe sull'imputato non costituisce una giustificazione esimente che lo legittima nell'accusare ingiustamente altre persone.[37]
Secondo la giurisprudenza, è invece lecito contestare le dichiarazioni incriminanti rilasciate da un testimone dell'accusa, sebbene, così facendo, l'attenzione è reindirizzata verso altre persone.[38] Secondo parte della dottrina e alcuni precedenti giurisprudenziali, non si rende poi colpevole di denuncia mendace chi, nell'ambito di un processo penale, smentisce il testimone dell'accusa, negando (a propria discolpa) la veridicità della testimonianza (e accusando dunque indirettamente il testimone di testimoniare il falso).[39] In particolare, nella giurisprudenza cantonale, si differenzia fra colui che si limita a contestare la veridicità della testimonianza incolpante e chi, invece, accusa esplicitamente il testimone di falsa testimonianza (in particolare modo se ciò avviene in una denuncia formale presso le autorità penali). Il criterio dichiarato per distinguere fra le due situazioni sembra essere l'intenzione di causare un procedimento penale contro il testimone; questa sarebbe infatti assente in chi si limita a contestare la testimonianza, mentre si ritroverebbe invece in chi accusa esplicitamente il testimone falsa testimonianza.[40]
A nostro parere, vale il principio per cui il diritto a discolparsi deve permanere e prevalere anche nel caso in cui, discolpandosi, l'imputato accusi indirettamente un terzo di falsa testimonianza o di denuncia mendace (e ciò deve essere il caso anche qualora l'imputato fosse, in realtà, colpevole, per cui la propria discolpa-accusa si tradurrebbe nell'accusa ingiustificata di un innocente, dunque in una denuncia mendace). Al contempo, però, ci sembra poco convincente la succitata distinzione operata sulla base dell'intenzione di causare un procedimento penale. Si consideri, infatti, che l'intenzione di causare un procedimento penale di cui all' art. 303 CP può essere anche eventuale, ossia integra la fattispecie anche chi riconosce ed accetta l'eventualità che il proprio operato potrebbe causare un procedimento penale contro un innocente.[41] In questo senso, considerando che la denuncia mendace è perseguibile d'ufficio, agisce con l'intenzione di causare un procedimento penale anche chi, sapendo di essere colpevole, smentisce il testimone che lo accusa (in quanto riconosce l'eventualità che l'autorità penale potrebbe perseguire il testimone per aver detto il falso). Da ciò si evince, secondo noi, che il criterio dell'intenzione di causare un procedimento penale sia in realtà poco affidabile. A tal proposito si sottolinea che la stessa dottrina riconosce che la distinzione fra difesa processuale lecita e denuncia mendace illecita sia difficoltosa (segno che il criterio dell'intenzione non il più adeguato).[42]
Un migliore discriminante si trova, invece, distinguendo fra i casi in cui l'ingiusta incolpazione è funzionale alla propria difesa, e i casi in cui essa è il prodotto collaterale della stessa.[43] A nostro parere, rientra nella prima categoria il caso in cui l'imputato, sapendo di essere colpevole, denuncia (alla polizia, alla magistratura, ecc.) il testimone a suo carico per denuncia mendace o falsa testimonianza. Questo, perché la denuncia è funzionale alla propria discolpazione (la condanna del testimone per falsa testimonianza o per denuncia mendace porta un enorme beneficio alla persona incolpata dal testimone), ma costituisce un atto a sé stante, logicamente distinto dall'azione di discolparsi (spesso, chi è accusato da un altro di un reato contesta le accuse in sede processuale e - in separata sede - corrobora la propria strategia difensiva denunciando il testimone; da ciò si evince chiaramente come i due atti siano connessi ma distinti).[44] In effetti, chi denuncia il testimone per falsa testimonianza agisce in modo del tutto paragonabile all'omicida che, per sviare i sospetti da sé, accusa un innocente di essere lui l'autore del reato. Rientrano nella seconda categoria, invece, tutte le condotte che costituiscono al contempo azione di discolpazione e accusa a carico di un terzo. Chi dichiara che «il testimone mente» sta disconoscendo ogni credibilità alle accuse a proprio carico; l'indiretta accusa che viene mossa al testimone è inscindibile dalla discolpazione, malgrado costituisca - in sé stessa - un atto di denuncia (mendace, qualora il testimone fosse sincero).[45]
Stabilito che nei casi in cui la denuncia mendace è il prodotto collaterale della discolpazione, le due azioni costituiscono un tutt'uno inscindibile, malgrado la condotta sia (e resti) tipica della fattispecie di denuncia mendace, secondo noi è l' art. 14 CP a disciplinarne la liceità: chiunque agisce come la legge lo impone o lo consente, infatti, si comporta lecitamente anche se l'atto in sé sarebbe punibile. Nel processo penale, l'imputato non è tenuto a collaborare al procedimento, non deve deporre a proprio carico ed ha facoltà di non rispondere.[46] Da tale principio deriva anche il diritto, per l'imputato, di mentire.[47] Inoltre, nel processo penale è assolutamente vietato raccogliere prove servendosi di mezzi coercitivi quali, ad esempio, le minacce.[48] L'imputato, seppur abbia commesso il reato, ha dunque piena facoltà di mentire, dichiarandosi innocente e contestando la veridicità delle dichiarazioni del testimone che lo accusa, anche indicandole esplicitamente come menzogne. Peraltro, se all'imputato fosse chiesto come si dichiara riguardo alle accuse del testimone ed egli venisse reso attento alle conseguenze di un'incriminazione per denuncia mendace, egli avrebbe comunque il diritto di mentire, in quanto la minaccia di un (ulteriore) accusa per denuncia mendace costituirebbe un metodo coercitivo vietato (che avrebbe inoltre l'effetto di rendere inutilizzabile la dichiarazione dell'imputato).[49]
In altre parole, il criterio discriminante è la natura stessa dell'accusa: se questa è indissolubilmente legata all'atto di discolparsi, allora il carattere illecito dell'accusa deve essere negato; se invece essa è solo funzionale alla discolpazione, allora il suo carattere illecito sussiste e l'accusatore adempie la fattispecie del reato di denuncia mendace. Infine, relativamente alla liceità dell'accusa-discolpazione, rileviamo che se questa vale per l'imputato, essa debba valere necessariamente anche per l'avvocato difensore che ne tutela gli interessi.[50]
V. Osservazioni conclusive
Riassumendo, con il presente articolo si è tentato di capire in quale modo, sulla base degli indizi presenti, sia possibile accertare la sussistenza del dolo diretto nella psiche dell'avvocato che sporge denuncia penale contro terzi per conto del suo assistito. Riteniamo che il confine si possa individuare laddove l'avvocato avanzi ipotesi e argomentazioni discordanti ed in aperta contraddizione, che si escludono vicendevolmente. Successivamente, abbiamo tentato di individuare un criterio discriminante per discernere fra la falsa accusa proferita allo scopo di discolparsi, e la falsa accusa quale conseguenza della legittima discolpazione. A nostro modo di vedere, è esente da pena colui che, pur mentendo, nel processo penale si discolpa, producendo in questo modo l'indesiderato effetto collaterale di accusare ingiustamente il testimone dell'accusa di aver mentito.